"Il rapporto tra arte e spettatore", intervista a Rino Crivelli
Gli esperti affermano, non senza indicazioni pertinenti, che i rapporti tra autore e lettore di un’opera artistica o tra artista e spettatore si stanno trasformando riflettendo in ciò anche i processi di modificazione sociale e culturale. Ma cos’è il pubblico, lo spettatore nel rapporto artistico? E cos’è l’arte, la pittura, il disegno, la letteratura? Il lettore, è stato detto, è colui che guarda un’opera. In questo senso, come ebbe a ricordare Dario Del Corno, Paul Klee aveva allora già visto giusto quando disse che “scrittura e immagine, lo scrivente e il figurante sono fondamentalmente tutt’uno”. Ed ebbe altresì a rammentare che già Simonide aveva a suo tempo sottolineato che “la pittura è poesia muta, e la poesia è pittura parlante”. La simbiosi del rapporto artistico lascia intuire, tra l’altro, quello che la tecnica delle comunicazioni di massa ha consentito finora di elaborare in senso manipolativo ma porta innanzitutto a riflettere sul significato profondo, sostanziale dell’atto d’arte. È un dibattito che dura da sempre, forse, ma che attualmente assume dimensioni grandiose facendo emergere la problematicità del momento storico con la crisi che lo caratterizza e accompagna. Il cronista sottolinea soltanto questo aspetti di un dibattito globale e non pretende, naturalmente di fare di più. Tuttavia questi cenni servono per far capire l’attrazione esercitata da un recente appuntamento al Centro culturale Rizzoli in Galleria, ossia nel salotto di Milano, dove un editore senz’altro d’eccezione, Vanni Scheiwiller, ha presentato una raccolta di 150 disegni e 15 “storie” di Rino Crivelli. Un appuntamento per sé raro tra segno e poesia o tra immagine e scrittura grazie alla pubblicazione appena avvenuta “All’insegna del pesce d’oro” per iniziativa di un editore che come tutti sanno, è svizzero e il cui catalogo è divenuto il Gotha dell’arte di razza. Non si deve dunque aggiungere altro per capire il richiamo prepotente esercitato dalla manifestazione e la curiosità suscitata da un’opera che in pratica rispecchia il crogiolo del momento. L’artista, il Crivelli, era peraltro già stato ammirato anche per il suo singolare surrealismo per il quale ebbe giustamente a dire Roberto Sanesi che “ogni sua opera è pronta ad assumere tic stilistici della più diversa provenienza, ad esporsi secondo formulazioni sempre devianti da un centro razionalizzabile in concetto unitario, a darsi una chiarezza che sembrerebbe lasciare scarsi margini all’ambiguo o al morboso, a negarsi come risultato di una sommossa psichica”. E bisogna dire che in questa nuova produzione presentata a Milano ancora una volta il “tic” dell’artista, la cui vita d’impegno risulta senz’altro esemplare per severità intellettuale e tenacia costruttiva, non ha smesso di stupire con quel favoleggiare sottile e stravagante che tra un disegno e l’altro s’inserisce, anche in poesia, per dire in metafora un’infinità di verità profonde provocatorie. Così l’espressione visiva e orale si fondono in un corpo unico in maniera “univocamente correlate”. Il titolo del volume impreziosito dalle “Edizioni di Vanni Scheiwiller” è per altro significativo e illuminante: “Speriamo che almeno Alice non dica okay”. Già da questa “nominazione” si avverte la meraviglia infantile e nel contempo la patita esperienza che in effetti emergono dal segno netto, semplice, e dal linguaggio lunare fiabesco, aereo e anche misterioso. Insomma un’opera che col disegno e la fiaba s’impone non tanto alla curiosità erudita ma soprattutto al momento e sul presente poiché trascendendo i convenzionali confini delle arti è pure testimonianza della crisi di cui s’è detto, cioè delle funzioni della cultura nell’interpretazione della vita dell’uomo. Un fatto importante, dunque, che l’editore Scheiwiller ha ancora il merito di offrire al mondo della cultura e un fatto che conferma le valenze di Crivelli, un artista che “crede nella forza poetica dell’immagine, ma diffida giustamente delle sue facili seduzioni”. Per questo, come giustamente ha detto Padre Alessio Saccardo, forse la circonda d’ironia e di scetticismo. Egli sa che la facoltà dell’immaginazione per quanto sia uno strumento insidioso e da usarsi con estrema cautela, è ancora capace di suscitare dubbi e inquietudini nell’uomo d’oggi e di orientarlo verso modi di vita e di espressioni meno condizionati e più creativi”. E a questo punto il cronista non può far altro che intrattenersi per i lettori di “Azione” con il pittore stesso per cercare di ricavare da lui quanto serve per capire la sua arte e, soprattutto, la sua “filosofia” dell’arte.
Il segno è uno strumento di comunicazione
Allora, ingegnere (diciamo al pittore che fino vent’anni fa era dirigente industriale e che poi s’è impegnato esclusivamente nella pittura, nelle minisculture, nella grafica, con diverse mostre e successo indubbio), vuol dire ai lettori di “Azione” che cosa è per lei il segno?
Il segno, nella sua più ampia accezione, è per me la facoltà stessa del rappresentare e dell’esprimere e, quindi, del comunicare significati. Il segno non esiste per sé stesso se non quando diventa forma. In particolare io mi riferisco d un segno specifico ossia al tratto del disegno che in una immagine dipinta può anche non essere fisicamente evidente, bensì suggerito come linea di separazione tra una campitura e un’altra. Il segno all’interno della forma, linea o colore, deve conservare la propria autonomia per significare.
Ma è sempre così per lei?
Per me è possibile quando, nel disegno, il tratto continuo si svolge liberamente senza un preciso programma descrittivo, come se la mano fosse trascinata dal segno ch’essa traccia e non dove vuole la mano, ma dove vuole il segno. Ciò è possibile soltanto dopo un lungo esercizio.
Allora prima viene il disegno, il segno e poi la sua titolazione?
Nel senso che ho detto ora, il segno – cioè il tratto continuo del disegno – all’interno della forma rappresentata diventa del tutto autonomo, tende cioè a significare innanzi tutto se stesso, come la vita degli esseri viventi. Se il titolo del disegno lo precedesse, costringerebbe il segno a rattrappirsi nella descrizione imposta dalle parole, a deformarsi, a morire, perdendo la propria autonomia. Ciò non avviene se le parole seguono la forma disegnata. In tal caso, il titolo o nome univoco di quella forma disegnata, acquisterà evidenza col suo farsi, per la ragione elementare che tutte a le forme spetta un nome.
Quindi i disegni dell’ultima raccolta con le “15 storie” sono stati titolati dopo la loro nascita?
Le parole accompagnano i miei disegni, nate sempre a posteriori, non vogliono descriverli, ma semplicemente chiamarli per nome. D’altronde l’uomo ha imparato a nominare le cose soltanto dopo averle percepite e sperimentate. In particolare, per i miei disegni e le parole che li accompagnano, questo avviene indicando una possibile storia, per me univoca e privilegiata, tra le tante che la forma disegnata può suggerire. Soltanto in questo senso le parole possono vivere accanto al segno senza danneggiarlo.
Ma detto questo, vuole anche precisare come intende lei l’arte e cosa è per lei la pittura?
L’arte è sempre rappresentazione di forme. Siano esse verbali, sonore o visive, la scelta del linguaggio specifico è strettamente connessa con la struttura dell’immaginazione del singolo artista. Questi tende spontaneamente a figurare, pensare, immaginare nelle forme che gli sono più congeniali. Non esiste privilegio che contraddistingua una forma d’arte rispetto ad un’altra. Diversa è certamente la natura delle singole forme. Poesia, musica, cinema, teatro, hanno un tempo di lettura univoco; invece pittura e scultura non hanno vincoli in questo senso.
Come? Vuole chiarire questo concetto?
L’uomo vive nel tempo, il presente è una convenzione poiché l’istante è impensabile, quindi la coscienza che riflette, pensa e immagina s’alimenta e vive di un passato che ininterrottamente si accresce. Il passato è una serie di molteplici eventi distribuiti lungo la retta del tempo; la pittura tende a trasformare il tempo in spazio, a ricostruire il molteplice del passato in unità presente; tende a dilatare l’istante dello sguardo ed a fermarlo senza più tempo nel proprio spazio. È questo il suo privilegio.
Lei vede un nesso, un collegamento tra la pittura, il segno e la vita?
Potremo dire che il mondo è segno, in quanto tutto ciò che indica la presenza dell’uomo è segno, quindi la cultura è segno come la memoria storica affidata ai segni che la tramandano. In pittura il segno si articola in linea più colore; nel disegno è prevalentemente linea (tratto continuo).
E nella sua pittura?
Nel mio caso il colore conferisce alla pittura una dimensione che il disegno non potrà mai darle. Nei dipinti il disegno non è più fisicamente percepibile diventando, come ho già detto prima, la linea di separazione tra due campiture di colore contigue e tuttavia struttura basilare sottesa al fatto pittorico. Il disegno infatti disciplina rigorosamente gli equilibri della composizione di superficie mentre il colore suggerisce piani di profondità consentendo di comporre utilizzando lo spazio virtuale da questi suggerito. La forma appare così disposta secondo piani variamente giacenti rispetto alla superficie del dipinto. Il disegno è per me uno strumento estremamente duttile e immediato, atto a registrare impulsi ed emozioni, avversioni e simpatie, fantasie e pensieri in termini di metafora anticipando la riflessione consapevole: rappresenta quindi un modo di essere e di divenire nel tempo dell’io cosciente.
Un’ultima domanda: cosa si aspetta da chi vede per caso i suoi disegni o da chi, senza essere un esperto, li osserva? Insomma dal “fruitore” occasionale, cosa si attende?
Mi auguro che le immagini che io propongo suscitino innanzitutto quel tanto di attenzione necessaria a mobilitare lo sguardo. Mi sarebbe gradito se l’osservatore così stimolato reagisse attivamente aggiungendo significati personali a quelli che l’immagine proposta implicitamente suggerisce. Buon segno sarebbe se la lettura non si esaurisse al primo incontro e inducesse il desiderio di rivedere e di riflettere. Se così fosse sarei confortato dalla certezza di poter dissipare il sospetto inquietante che il comunicare sia un’illusione.
Intervista di pubblicata, a firma F.V., su Azione, 14 dicembre 1978
"Crivelli. L'ironia del segno", di Elena Pontiggia
Diceva de Chirico che il disegno è un’arte magica. Rino Crivelli lo dimostra. Con la sua linea nitida, perfetta (mai un’incertezza, un ripensamento, una correzione. Verrebbe da dire: “Ma come fa?”) crea nelle sue carte, magicamente appunto, un piccolo teatro di figure e di storie. La sua linea non è mai un gioco formale. È un racconto, un apologo, un insegnamento. Con divertito disincanto Crivelli disegna cosa ha capito della vita (lui, a cui la vita non aveva risparmiato le esperienze più drammatiche). La sua ironia confina però col lirismo, con una levità sorridente e volatile, la stessa che anima le tavole e le fiabe del suo Speriamo almeno che Alice non dica okay. Protagonista appartato dell’astrattismo milanese di fine Novecento, Rino Crivelli è stato pittore e scultore. Ma forse mai come nel disegno ha saputo esprimere quella che chiamava “la sovranità della linea”, la “tendenza della linea a costituirsi come diario ininterrotto”. Ed è un diario, il suo, ancora in gran parte da scoprire. Come è da scoprire, si intende, l’intero corpus del suo lavoro, che rappresenta un mondo in frammenti e in frantumi, dove la geometria irregolare si trasforma in un atto di accusa contro la ragione, i suoi dogmi, le sue certezze. L’astrattismo di Crivelli non postula un mondo di armonie, ma esprime la disarmonia delle forme, la loro assurdità, la loro incompatibilità. E la stessa cosa accade nella sua scultura: quella magna pars della sua ultima ricerca, cioè, in cui i segni escono dalle carte e dalle tele per diventare tridimensionali; portando però nello spazio lo stesso senso di ilare e disperato disordine, la stessa smaliziata consapevolezza che, come diceva Nietzsche citando Platone, “tutto ciò che è umano non merita di essere preso troppo sul serio”. Crivelli elude i materiali tradizionali della scultura e sceglie una materia apparentemente fragile per creare una processione di cose vive in precario equilibrio. Dandoci così una metafora, anche, del nostro squilibrio e della nostra precarietà.
Presentazione della mostra Orizzonte vivo, alla Galleria San Carlo, Milano, maggio 2016
"Un segno che graffia l'abitudine", di Luciano Inga Pin
Penso che non sia più il caso di insistere sui risultati o, meglio, sulla eredità lasciataci dall’informale. Se ne è parlato abbastanza, in lungo e in largo, e il tempo ha decisamente sanzionato i limiti di questo movimento, le sue peculiarità e, in definitiva, anche tutti gli errori commessi, apparenti e no. Tuttavia l’esperienza materica, il gioco sottile di un astrattismo esasperato e fortemente simbolico sono senza dubbio positivi. E partendo da questa posizione storica si è ormai arrivati a un genere pittorico che da una parte non ha più nulla a che fare con l’informale, dall’altra ha stabilito un rapporto più preciso con le attuali tecniche dell’immagine. In questo clima si inserisce ora Rino Crivelli che ha ordinato la sua personale in questa galleria allo scopo di mostrare le molteplici possibilità di una esperienza pittorica niente affatto trascurabile o, meglio, il cammino percorso durante questi ultimi anni. Una ricerca di costante attualità, filtrata attraverso precise esperienze materiche, maturata in un clima di coscienziosità davvero insolita in questi tempi.
Partito dal segno di un Dubuffet, Rino Crivelli ha trovato via via la sua personalità inseguendo un suo particolare discorso, una sua dinamica osservazione intorno alle problematiche esistenziali. Muri, sequenze di strade, asfalto, il cammino dell’uomo incanalato entro i suoi limiti naturali. L’osservazione acuta di una materia che ci accompagna giorno per giorno, passo per passo, è colta nel suo iter, attraverso un segno suggestivo ma non per questo decorativo. Un segno che graffia l’abitudine, il suolo, l’immobilità, che scuote intorno a sé pulviscoli di vita, di luce, impercettibili attimi di tempo che si sollevano al nostro passare. E non è tutto: l’immagine di Crivelli riesce a inserirsi dentro di noi, di colpo, senza alcune partecipazioni intellettualistiche ma nel modo più naturale possibile, quasi un grafico delle nostre passeggiate intorno ai labirinti della vita.
Un discorso eloquente, stabilizzato appunto da una rarefatta e preziosa cromia, da una materia che si rinnova di continuo e che indica, senza alcuna alternativa, le molteplici disponibilità di questa pittura.
Presentazione della mostra alla Galleria Pianella, Cantù, ottobre 1967
"L'immaginazione e l'ironica passione", di Luciano Budigna
Rino Crivelli ha quarant’anni, si occupa di problemi artistici e fa professione d’arte fin dall’adolescenza, ma questa è la sua prima mostra personale. Caso davvero più unico che raro ai dì nostri – oggi che i giovin pittori nemmeno aspettano d’uscir d’accademia per esporre col maggior clamore possibile , per tentare di entrare in proficue e vincolanti “scuderie” – caso davvero straordinario quello di un artista che per “pubblicarsi” attende il segno, la consapevolezza di una maturità stilistica e morale, cioè poetica, in grado non soltanto di resistrere, con piena, legittima coerenza, alle infinite suggestioni culturali che insidiano le migliori vocazioni, ma anche garantire, con la medesima coerenza, la necessaria progressione della propria vicenda espressiva. È in questo primo sintomo di una struttura dell’intelligenza e della coscienza dell’arte, dei suoi problemi e delle sue funzioni, di una distaccata, quasi ironica (nel più alto senso romantico) passione, di un freddo, severo furore verso la condizione artistica che dalla condizione umana è pur sempre inseparabile e – prima ancora di valutarne il singolarissimo impegno estetico e propriamente tecnico – si vedrà la rigorosa e vigorosa testimonianza di una natura quanto mai attenta e preoccupata nella ricerca di una giustificazione all’esistere di sé e del mondo, di una natura pienamente fiduciosa nell’efficacia di tutte le superiori manifestazioni dello spirito ai fini di quella ricerca, di una natura, infine, aperta e ormai adusa a ogni episodio, a ogni avventura dell’antica battaglia fra caso e scienza, volontà e fantasia, emozione e pensiero, , fede e sorte. È proprio sul crinale fra una deliberata, lucida, accorta programmazione strutturale e luministica ed una sensibilissima disponibilità agli imponderabili interventi del caso che avviene l’attività creativa di Crivelli; al limite si potrebbero perfino riconoscere nel suo operare una razionale provocazione ad una maggior tensione della casualità, una sorta di esortazione evocativa a una più ampia libertà dell’irrazionale. A volerlo approfondire, questo discorso potrebbe senza troppi sforzi approssimarsi al campo minato dei dubbi che dilacerano la civiltà contemporanea: che, del resto, ogni autentica manifestazione artistica non può non rispecchiare; e che qui, per altro, sembra trovare echi, rispondenze, implicazioni, di particolarissima evidenza. Il problema, per Crivelli, il “moto a luogo” del suo esercizio pittorico è ancora la shakespeariana (o, se si vuole, sartriana) question dell’essere e del nulla (dal quale l’essere ogni volta si ridetermina), problema puntualmente impostato e condotto avanti in originali trasposizioni di linguaggio visivo, in una dialettica di forme orienti e spazi indeterminati, con una eccezionale ricchezza di affinità e di acquisizioni culturali ed estetiche, ma anche con una grande parsimonia e nobiltà e pudore nel loro impiego. La naturale disposizione surrealista, l’intelligenza dell’autentico significato gestuale, l’anelito costruttivista e neoplastico da un avvio d’ancestrali memorie geologiche (Villon, Ernst, anche Tapies e Riopelle, se si vogliono fare dei riferimenti, soprattutto il primo Dubuffet) si risolvono nei fogli di Crivelli, senza residui, in un’unica costante espressione. Si dirà ancora, a chiusura di questo rapido invito ad aprire un ben altrimenti impegnato esame dell’opera di Rino Crivelli, che la presente mostra si dispone come un percorso, quasi didattico, da una situazione di ricerca e una condizione di poesia, da un’insistita sperimentazione in un ambito volutamente delimitato all’essenziale premessa d’ogni possibile esito dell’arte.
Pubblicato su La fiera letteraria, marzo 1965
"La matura coscienza del fatto pittorico", di Giorgio Kaisserlian
Crivelli imbastisce un fatto compositivo che celebra la vittoria della lucidità e della operosità mentale dell’artista. Le sue opere pertanto meritano di essere lette al livello di una matura coscienza del fatto pittorico.
Nell’inquieto ma orientato infittirsi delle sue ricerche, Crivelli instaura il suo lavoro in un clima di tensione creativa che genera emozioni visive stimolanti. Attirandoci nella trama compatta delle sue strutture, egli ci invita ad attestare in dialogo con i suoi lavori il fervore critico ma creativo del tempo che viviamo.
Presentazione della mostra alla Galleria Cadario, Roma, novembre 1967
"Impronte e operosità mentale", di Giorgio Kaisserlian
L’opera attuale di Rino Crivelli rappresenta qualcosa di più di uno sviluppo delle sue opere precedenti. Sino a poco tempo fa, attratto dalla qualità della resa pittorica ch’egli poteva ottenere dalle sue elaboratissime materie variamente distese sulla tela, Crivelli era approdato ad un’esperienza informale, ch’egli ha portato avanti con efficace coerenza.
Ora però, Crivelli va oltre il rovinìo effervescente d’ogni cosa, che l’aveva sollecitato, per la preziosa evidenza dei risultati ottenuti – e si è teso alla conquista di contenuti consistenti. Si potrebbe dire che nell’arco delle sue proposte, il suo momento operativo attuale si pone come un contrappunto dialettico con la produzione precedente. Egli si è avvalso della sua consumata perizia tipografica per dare alla sua riconquista dell’oggetto sulla tela un pieno carattere di struttura.
In effetti, nei suoi lavori di oggi appaiono delle foglie, che hanno la precisa struttura vegetale delle foglie di alberi, in quanto nascono direttamente da impronte di foglie naturali. Ma nei nuovi lavori di Crivelli non sono solo gli oggetti in primo piano (come le foglie) che emergono da un siffatto trattamento, anche i fondi dei dipinti, che paiono pezzi di tappezzeria, sono ottenuti per impronta. Nei dipinti di Crivelli, comunque, oltre le foglie, compaiono altre strutture che paiono sorta di tubi., degli steccati, ed anche varie strutture vegetali e tutte quante si saldano o si oppongono tra di esse.
Ma qui il nostro discorso inevitabilmente si allarga oltre i contenuti che l’acuto senso compositivo dell’artista riesce a far emergere sulle sue tele. Crediamo di poter scorgere attualmente in Crivelli un principio operativo che occorre mettere ben in chiaro, in quanto ci appare una proposta stimolante nel divenire dialettico dell’arte attuale.
Questo suo avvalersi critico delle impronte, nell’ambito della riconquista dell’oggetto, è una posizione ben caratteristica e precisa, distinta, da una parte, dall’evocazione ch’è tipica di una nuova figurazione e dall’altra, dai collage degli assertori Neo Dada e Pop. Vi è in Crivelli la volontà di carpire l’oggetto nella sua struttura più densa come l’evocazione non gli consente, per un verso, e la dimensione totale di fronte all’oggetto Neo Dada e Pop non glielo permette per un altro verso.
Senza indulgere ai fervori un po’ nascosti dell’intimismo (delle nature morte post impressioniste) né al raptus vitalistico del manierismo informale, Crivelli imbastisce un fatto compositivo che celebra la vittoria della lucidità e della operosità mentale dell’artista. Le sue opere, per tanto, meritano di essere lette al livello di una matura coscienza del fatto pittorico. Nell’inquieto ma orientato infittirsi delle sue ricerche, Crivelli instaura il suo lavoro in un clima di tensione creativa che genera delle emozioni visive stimolanti in chi guarda.
Attirandoci nella trama compatta delle sue strutture, egli ci invita ad attestare in dialogo coi suoi lavori, il fervore inventivo dei tempi che viviamo.
Presentazione alla mostra alla Galleria L’Incontro, Vicenza, 1968
"La lucidità razionale", di Mirella Bandini
L’immaginativa del pittore milanese Crivelli è di una lucidità razionale: nei suoi dipinti, a campiture piatte di colori tipografici, la strutturazione associativa di superfici geometriche si impagina e si equilibra rigorosamente con la ricorrenza di immagini vegetali e antropomorfe. La sua poetica, profondamente legata al contesto sociologico attuale, non è legata a una proposta di evasione, ma di contrapposizione o addirittura di evasione alla strumentalizzazione della civiltà tecnologico-consumistica. In una relazione tensionale di tagli di spazi, il recupero liberatorio della natura avviene attraverso l’evocazione emblematica a riporto di presenze vegetali, associativamente alla smitizzazione dell’oggetto divenuto simbolo. L’ordito evocativo e di memoria, freddamente e razionalmente controllato, si interseca e si contrappone agli elementi pressivi tecnologici – iterati mediante articolazioni di simbologie geometriche e ottiche spezzate – a riscatto ricostruttivo dell’appiattimento e impoverimento della condizione umana attuale.
Pubblicato su NAC notiziario arte contemporanea, n.18, 1/7/1969
"L'incontro-scontro tra eventi geologici, astrali e quotidianità", di Francesco Vincitorio
[…] Di Rino Crivelli ha già scritto Mirella Bandini in occasione di una recente mostra a Torino. In questa, alla Galleria Bergamini, le opere sono però, per lo più, degli ultimi mesi, e mi pare che la sua pittura si sia fatta più matura. L’incontro-scontro tra eventi geologici, quasi astrali, e la quotidianità, labile fino al gioco, riesce spesso a raggiungere un’aria rarefatta, una sospensione che è tipica di un discorso pienamente realizzato. […]
Pubblicato su NAC notiziario arte contemporanea, n.30, 1/2/1970
"Logica, costruzione e favola", di Roberto Sanesi
Queste favole dove è proibito soffiare – non tuttavia per disperdere eventuali sogni, ma più probabilmente per non svelarne il meccanismo, e i conseguenti risvolti ironici – nella loro risoluzione visiva sempre più sofisticata, nella loro reductio a un non detto (mai del tutto, sempre con una scappatoia in altri territori), sembrano sostenersi su una sorta di precedente/referente dato e cancellato, alluso e negato, e, per quanto oscillante, sicuro. Le parole, insiste Crivelli insistendo con grazia e competenza a presentarsi da sé con storie parallele, “talvolta sembrano concedere una probabile indicazione”. La cautela dell’affermazione è significativa. Non è una condizione di incertezza delle immagini sottolineata da parte di colui che le provoca e sceglie (e quindi impone come, contraddittoriamente, certe), poche in effetti, poi, tali immagini, e da tempo pur nell’apparente eclettismo del loro esporsi, si configurano con nettezza di profili, con solidità, senza concedere apparentemente nulla o quasi a vaghezze interpretative – le campiture, le masse, gli “stacchi” talvolta da collage hanno un’aria oggettiva; si tratta piuttosto, di una doverosa messa in guardia sulla preminenza di certi valori, che in un certo senso stanno prima e fuori, e che per affinità intervengono, ma correndo nella direzione dell’immagine data. La quale, come è ovvio, appena relata se ne avvale, ma non per questo viene visivamente stravolta. E si potrebbe pensare all’istituzione di un codice di tutt’altra natura (per esempio letterario) quale strumento indispensabile di lettura, senza il quale il rischio è che certe componenti non vengano percepite. Sebbene quell’”esistere prima” degli elementi portanti, risvolto del visibile, storie di relazioni sotterranee, non sia da intendere in linearità cronologica, come di cosa pensata e tradotta e, nella traduzione, parzialmente cancellata. Come appunto, nelle favole, la cui struttura nascosta è comunque scontata: non fosse altro perché collettiva; e per quanto diversi viaggi dell’immaginazione si possa perdere è sempre possibile riacciuffarla in un gioco di relazioni, frammento di un puzzle. Non qui. Qui il precedente è, per così dire, autonomo e soggettivo. In ogni caso. Ma non tanto da bloccare il meccanismo, non tanto da escludere che vi si possa costruire una storia. Da parte dello spettatore. E allora ci troveremo di fronte, continuamente, a un’altra storia. Mi pare che sia questo che la pittura di Crivelli (tralasciando di insistere sulle sue componenti tecniche: ciò che si vede è inutile descriverlo) suggerisce: un intervento liberato su una storia presunta, di cui si danno elementi non solo parziali, ma già “interpretati”, già superati con un atto di scelta. In questo spiragli di possibilità lasciato aperto tra un dato e l’altro (fra “storia” e “storia”?) si addensa una carica di suggestione che sembra dipendere dall’assunzione, da parte di Crivelli, di categorie pre-letterarie/visuali che agiscono come una sorta di mitologia oscillante, allusiva e soprattutto “indefinita”, fino a un collettivo che non è a priori ma finge di esserlo e, fingendo, si offre per certo – ipotesi la cui soluzione è rimandata, verso altre ipotesi. La struttura è circolare. È vero che per Crivelli si si rovescia una situazione ovvia, per cui l’immagine verbale è quasi il prolungamento dell’immagine visiva (e alcune sue dichiarazioni del 1972 sul rapporto visione-esposizione verbale sono chiarissime, ma è anche vero il contrario) con la differenza che mai uno dei due opposti, come è inevitabile, ha la minima possibilità di vita autonoma. In questo senso perfino il suo surrealismo, area privilegiata del suo fare pittura, ha caratteristiche assai particolari. Al limite, è tale più per nominazione (si veda l’incidenza dei titoli) che per evidenza visuale se è vero che di per sé ogni opera è pronta ad assumere tic stilistici della più diversa provenienza, ad esporsi secondo formulazioni sempre devianti da un centro realizzabile in concetto unitario, a darsi una “chiarezza” che sembrerebbe lasciare scarsi margini all’ambiguo o al morboso, a negarsi come risultato di una sommossa psicologica. Le apparenze, caso mai, sono di quieta e luminosa logica, di meditata costruzione, e l’insistente favolismo è spesso più nella tonalità, nell’atmosfera, che non ha quasi nulla degli intrichi onirici, o dei lucidi giochi di parole magrittiani. La stessa frequente frontalità delle immagini suggerisce, e le distende su un piano, e solo a tratti le dilata oltre i limiti dati, un “meraviglioso” che tanto più rischia l’elementare tanto più coinvolge. A scrivere una storia inesistente per immagini, a fissare in immagini una storia soltanto probabile la cui chiave di lettura è altrettanto inesistente. Sola certezza è “l’impulso a dissolvere ogni certezza”, ma non è affatto un delirio.
presentazione della mostra alla Galleria del Centro culturale Rizzoli, Milano, 1976
"Il popolo di legno", di Giancarlo Maiorino
È una strana popolazione di esseri bifaccia, lievi e insieme solidamente verticali, ben costruiti e insieme sprigionanti raggiere visionarie, che abbiamo dinanzi. Il carattere, tuttavia, più decisivo delle variegate figure che ci fissano, e sembrano intrecciare un enigmatico colloquio muto pure tra di loro, mi sembra risiedere in una contraddizione fruttuosa, capace di costituirsi tanto in unicità, quanto in comunanza. È come se queste formidabili incarnazioni di legno, entro le quali il Crivelli affettuosamente si aggira interpellandole, e in qualche modo misteriosamente interpellato da esse, articolassero un orizzonte di metafore e metonimie, familiari e distanti al contempo. Nell’ordine della familiarità, convocando fattezze, o almeno identikit, di evidenza antropomorfica; nell’ordine della distanziazione, esigendo sforzi di supplenza logica, mentale. Una costellazione onesta e ipocrita, spiazzante consuetudini di ricezione, che cariche massicce di autoironia rendono ancora più disponibile, più rapportabile alle miscele d’incombenze e di sogni, di fattività e di mitizzazione che ci strutturano quotidianamente. Solo che qui, perenne virtù dell’estetico, una formalizzazione tonicamente disinteressata, scartando le circostanze grezze del collaudato e di ogni imperiosità del pieno, ricostruisce facsimili trasformati in una ridda o giostra di riconoscibili-irriconoscibili. Tali che lo scrutatore – esponendomi ora nella qualifica che mi compete – non puramente accoglie quello che è per ciò che rivela, e suggestivamente irradia, ma anche per le onde possibili che quella realissima selva accompagnano e abbandonano. E progressivamente, lungo una successione che è sostanzialmente un incedere, stazione dopo stazione, per chi armato di curiosità e piacere nella vertiginosa serie di aut aut s’inoltri; un incedere alimentato da raffinate e cangianti colorazioni, preziose nel rammentare che Crivelli è soprattutto pittore, di tattilità delicata, di generatività attivantesi e per contrasti e per miscelazioni.
Vorrei sostare sul punto raggiunto, perché possibile, forse, di trasferimenti ulteriori: è che, vuoi per i riporti accumulati, vuoi per le dialettiche a più raggi esposte, vuoi per altri fattori imperscrutabili, si condensa, nella geometria interrogata, una connessione apparentemente paradossale, di somiglianze-differenze. Atta a manifestare una metamorfosi per cui i battezzati “esseri bifaccia”, citati all’inizio, quasi svolgentesi se stessi, si manifestino via via per esseri a più scansioni, plurifaccia … una sorta di “individui uniti” o, ancor meglio, “unibili”.
Così rifiutando – pregio non ultimo – le solo apparentemente opposte ideologie che infestano il pianeta culturale: quella imperniata sul trionfo ossessivo dell’io individuale e quella imperniata sull’insistenza propagandistica della solidarietà collettiva. Qui – nell’innocenza del frastagliato, del dentellato, del tondo, dell’acuminato, del serpeggiante, dello strappato – modulazioni di una ben diversa inquietudine, concretizzate e mutanti per linee e tinte e telai, ricordano ai non bendati la complessità a-ideologica, irriducibile della persona.
Un rilievo aggiuntivo, in qualche modo compattabile al tratteggio teorico: sono indipendenti oggetti eppure l’apertura di innumerevoli transiti e staffette e la correlata sagomatura delle ombre e delle luci chiamano, con sottile ma tenace investigazione, paesaggi urbani verificabili, e transiti pedonali, alias, noi…
dal catalogo della mostra alla Galleria San Carlo, Milano, ottobre 1993
"L'intelligenza del nonsense", di José Barrias
Di Rino Crivelli si potrebbe dire che sia lui che la sua opera appartengono all’antica specie dei cantastorie. I suoi lavori, scritti, orali e visivi, sono delle finissime riflessioni narrative sulla distanza, e perciò intrisi di quelle forme ironiche e comiche, sub specie aeternitatis, che la storia riconosce come proprie. Lo stile dell’uomo e l’opera dell’artista sono in questo caso una sola cosa, che si afferma come un chiaro esempio di lucidità. Diciamo allora che dentro il discorso poetico e immaginario di Rino Crivelli, senso e nonsense convivono in piena evidenza, senza equivoci né malintesi. Sarebbe persino plausibile pensare che sia proprio il nonsense la figura conduttrice del senso nella sua opera, ossia la via che inequivocabilmente porta i suoi racconti all’interno della sfera della verità e dell’autenticità, vale a dire dentro quel mondo ove le certezze paiono tanto più vere quanto più ingannevoli ed incerte esse appaiono… “Cara incertezza” disse un altro grande filologo cantastorie, Guido Ceronetti.
“L’immagine verbale è per me quasi il prolungamento dell’immagine visiva con fitte radici a questa strettamente avvinte, tuttavia all’osservatore rigorosamente visivo le stesse potrebbero sembrare remote e appartenere addirittura ad altro ceppo, ma gli apparirebbero affioranti se gli si facesse considerare che la condizione di esistere spinge l’uomo a rimuovere il sogno come il sogno l’uomo. L’immagine visiva può allora diventare la cronaca per affermazione o negazione di questa duplice rimozione. Infatti il vedere e il dire appartengono a due dimensioni distinte della coscienza di essere nel mondo, più disponibile quindi l’occhio a negare i contenuti della parola, più libera la parola di svelare le omissioni dell’occhio”. (Rino Crivelli)
Ecco, mi pare di avere sottolineato, seppure molto sommariamente, alcuni degli elementi che mi sembrano fondativi del pensiero visivo di Rino Crivelli. Ci siamo conosciuti a Milano nel 1971. Abitava allora in via Disciplini, in una casa-studio segnata da un ordine indisciplinato che egli popolava con l’ironia e la comicità che prima ho provato ad annotare qui. La popolava letteralmente la casa e lì, realmente, cucinava pure… Perché anche sotto questo profilo fu bravissimo e inventivo. Cucinava per esempio ogni tanto delle gustosissime palle canguro, così venivano da lui chiamate, poiché si presentavano avvolte da una sostanza gelatinosa che a suo dire, in caso di interposti ostacoli, sarebbero state capaci di rimbalzare nello spazio come canguri. Erano laboriose le palle canguro di Rino! Fabbricate a strati con pezzettini di tacchino disossato che a loro volta venivano amalgamati a forma di palla con pezzettini di varie verdure lesse e colorate. Se viste in sezione erano bellissime, se sentite con l’intero palato erano buonissime. Di questa gustosissima storia posso dire che l’ho ricordata qui perché essa è perfettamente riconducibile al registro iconico, ironico e comico del vissuto di Rino, Rino Crivelli, amico, artista, cuoco, filologo, ingegnere e cantastorie.
Dal catalogo della mostra Orizzonte vivo, Galleria San Carlo, Milano, maggio 2016
"Con Rino", di Giancarlo Majorino
Con Rino si filava nell’arte e nel piacere di esserci
è una modalità, anzi: un mucchio di modi
tanto della persona quanto delle sue opere che esprime
gli oggetti che creava divenivano oggetti viventi
anche per questa “anima” di lui, di loro
una sorta di equivalenze sotto sotto: di
sostanzioso esser felici o alla ricerca della felicità
si sosteneva: “leggi le parole o guardi le pitture”
utili in senso profondo, amava quelle creazioni
e si sentiva la sopravvivenza
dell’opera e dell’artista che non possono
apparire in una distanza e invece ..!
invece, e chiudo: questa sapienza stilistica,
l’invenzione di ciò che è riuscito a creare,
la presenza di lui per chi ha avuto la fortuna
di conoscerlo più volte e senza superficialità
hanno creato una “tranquilla esponenza”
che “parla” tuttora e sempre con orizzonte vivo
dal Catalogo della mostra Orizzonte vivo, Galleria San Carlo, Milano, maggio 2016
"La forza poetica dell'immagine", di Padre Alessio Saccardo
Perché un’antologica degli ultimi dieci anni di pittura di Rino Crivelli?
Per una duplice ragione. Anzitutto perché la parabola della sua ricerca si svolge attraverso una serie di passaggi strettamente legati e articolati al punto da proporsi come emblematica di una vicenda più vasta, vissuta però in modo estremamente lucido e consapevole. In secondo luogo perché gli esiti di questa ricerca conservano uno spiccato accento individuale e conducono verso territori poetici poco esplorati.
Nel tempo della sua esperienza informale Crivelli aveva intenzionalmente ridotto il suo far pittura alla singolare incontestabile realtà del fare gestuale. Si abbandonava al flusso dell’esistenza, alla causalità degli incontri, alla fisicità degli eventi. Ben presto tuttavia la sua attenzione fu attratta da quelle immagini che erano rimaste impigliate nel quadro, ancora legate alla materia vischiosa di cui sembravano intrise e che dava loro un senso di insidiosa ambiguità. Lo interessò proprio questa ambiguità, forse perché aveva un effetto di spaesamento e di provocazione insieme, di attrazione e di repulsione. Cominciò così a violare la sordità della materia, la sua ottusità, per costringerla a farsi forma significante, per tradurla da oggetto in immagine, avendo però cura di conservarle, con sottili artifici, la sua primaria problematicità, riflesso quasi della sua stessa situazione d’artista. Fu l’avvio di una ricerca sul linguaggio, che doveva portare al rifiuto dell’immagine estetica come immagine di consumo. Per toglierla alla nostra voracità e salvarla nella sua specificità
Estetica, egli la sottrae al prevaricante potere del linguaggio come strumento codificato, posseduto e predeterminato. E pur utilizzando gli stessi mezzi della ricerca strumentalizzata la contesta, deviandoli da esiti non di univocità ma di equivocità. Conoscendo l’avvertenza critica con cui Crivelli esercita il suo lavoro, l’ho invitato ad esprimere personalmente le ragioni che lo guidano. So tuttavia che queste ragioni non possono avventurarsi oltre un certo orizzonte proprio per quel senso del limite, del pudore oserei dire, che lo contraddistingue.
Lo spiazzamento che si prova di fronte alle sue opere, che sfiora talvolta il disagio, è maliziosamente provocato; ha la facoltà di sorprendere ancora il nostro occhio di consumatori e di condurlo per le strade inconsuete dell’interiorità più difesa, senza che per questo si debba arrossirne come di una imperdonabile debolezza. Crivelli crede nella forza poetica dell’immagine, ma diffida giustamente delle sue facili seduzioni. Per questo forse la circonda di ironia e di scetticismo. Egli sa che la facoltà dell’immaginazione, per quanto sia uno strumento insidioso e da usarsi con estrema cautela, è ancora capace di suscitare dubbi e inquietudini nell’uomo d’oggi e di orientarlo verso modi di vita e di espressione meno condizionati e più creativi.
Pubblicato nella brochure di presentazione della mostra “Rino Crivelli 1963-1973”, Centro culturale San Fedele, Milano
"Magici fili", di Filippo Crivelli
Fili magici che mai si interrompono per formare disegni e forme imprevedibili, oppure segnali come passaggi aerei che possono a volte racchiudere e rivelare gamme raffinate dai tanti colori sfumati o annebbiati da epoche lontane. Ecco come voglio ricordare i tanti, tantissimi disegni che Rino creava, con perfetta precisione, su grandi fogli durante gli ultimi anni della sua “gloriosa” attività artistica. Noi in famiglia non abbiamo abbastanza apprezzato e compreso il solitario lavoro di Rino, che dipingeva con nuove tecniche di colore realizzando opere del tutto personali. E la sua creatività si moltiplicava negli anni: sculture, ceramiche, oggetti di minuscole dimensioni dai metalli preziosi oppure di impreviste proporzioni, manifesti, disegni. E battezzava ogni sua nuova opera con nomi a volte improbabili, ma sempre giustificati dalla sua surreale fantasia intrisa di ironia e leggerezza. Ricordo quando alzò il coperchio di una scatola di cartone e ci presentò una delle sue prime ceramiche. “Questa è la Pera Canguro!” e noi ammirammo un oggetto “nuovo”, davvero geniale: introvabile è oggi quella Pera, esempio chiarissimo del suo mondo.
Natura, Infanzia, Poesia gentile. Dalla Pera Canguro nacquero poi altri lavori con temi e nomi diversi. Quadri, naturalmente, e disegni, e libri, e… e filastrocche… la Belzebìfania con l’esercito dei Belzebìi… il Ravanello Canterino con l’amico Merlo… il famoso e numeroso Popolo di Legno… e infine Alice che Rino amò particolarmente. Quando Scheiwiller pubblicò Speriamo almeno che Alice non dica okay” lessi nel titolo una parola che mi colpì allora e che tengo sempre in mente: “ALMENO”. Perché “ALMENO”? Nel nuovo mondo che precipitosamente avanza Rino segnalava il pericolo dell’annientamento della personalità: e Alice nei suoi stupori di incontri non dovrà, non potrà contaminarsi dalla moda dirompente dell’Oggi. Per Rino (e per me, suo fratello) resta sempre la speranza e la certezza che ALMENO Alice non dica “okay!” Grazie, Rino, mio fratello non dimenticato…
dal catalogo della mostra Orizzonte vivo, Galleria San Carlo, Milano, maggio 2016
"Le mille e una... storia", di Paola Fonticoli
Non è un caso che l’ambiente sia quello domestico: gli attrezzi dell’artista si affastellano sui grandi tavoli (anche se talvolta si divertono a nascondersi) così come pentole, piatti, sacchetti si affollano sul piccolo tavolo blu dello spazio cucina. E poi libri, su libri, su libri. Disposti sopra grezze assi di legno e tubi innocenti, separano lo spazio: quello destinato al riposo e al cibo da quello, ben più vasto, del Gioco. Sì, perché a Rino piace giocare. E gli piace farlo seriamente. Ogni giorno è lì, attento e divertito, a catturare i sussurri, i bisbigli petulanti, il fitto addensarsi di storie, segreti e paradossi che i suoi “personaggi” vanno raccontando senza posa, siano essi appartenenti al “popolo di legno”, rappresentanti della folla degli “gnomi” di rame (“…un uccello, un serpente, un microscopico cespuglio con le ciabatte.”) o estratti dal flusso ininterrotto dell’infinita serie dei disegni. Estraneo al pettegolezzo del quotidiano Rino Crivelli attraversa il mondo (da ottant’anni circa) col passo leggero del funambolo, con lo sguardo sottile del furetto e con mente acuta e tagliente. Un suo Teorema (ironica memoria dei suoi inizi da ingegnere…) recita: ”…un triangolo bianco sopra uno sbilenco rombo forato blu equivale a una grossa e sinuosa zeta in coppa a un quasi triangolo fornito di triangolare buco, ambedue blu”.
dal catalogo della mostra Rinografie, Galleria S. Carlo, Milano, 2000
"Le estrose "favole di legno" raccontate da Rino Crivelli", di Enio Concarotti
La Galleria Rosso Tiziano Arte presenta in questi giorni una mostra di Rino Crivelli, pittore scultore milanese che propone il suo “popolo di legno” fatto di sagome ad altezza umana ritagliate da tavole incenerite e dipinte da ambo le parti con miscele di smalti e inchiostri tipografici. Risovvengono i giochi di intarsio ritagliato in leggere e fragili lavagnette di legno compensato che i ragazzi di cinquant’anni fa eseguivano con sottili ed elementari seghettini ricavando figurine prima disegnate con la matita. E non v’è dubbio che anche questo di Crivelli sia un gioco, un comportamento ludens e cioè carico di allegria, di estrosa provocazione, di inviti al libero fantasticare interpretativo, di ritmati e incalzanti ironici, di voglia di animare di ritmo e colore frammenti di materia che si organizzano in un senso, in un significato, in un simbolo.
Sicché i suoi personaggi, tutti di sorgività visionaria, si dispongono in una specie di colloquio, convegno, incontro e confronto in cui non ha senso cercare di dare senso e significato di razionalità figurativa a qualcosa che si diverte e driblare, fare lo sgambetto, glissare e anche ridicolizzare l’impegno razionale.
In questa progettualità “giocante” a svolgimento estrosamente astratto, comunque si avverte una ben precisa e determinata voglia di colta operazione intellettuale (Crivelli didascalizza i suoi legni colorati con brevi racconti di sapore favolistico) che propone intuizioni della magica figurazione del mito della leggenda, delle civiltà primitive.
Si susseguono sagome in cui sembra annidarsi un richiamo antropomorfo di elegante e stravagante stilizzazione svolta formalmente con modulazioni frastagliate, dentellate, tonde, acuminate, serpeggianti, strappate, ricomposte e assemblate.
Il ritmo compositivo preme con una sorta di divertito dinamismo visionario che frantuma la parvenza figurativa con quel groviglio grafico e cromatico da puzzle mimetico che la natura dà a certi suoi animali, a certe sue pietre preziose, a certi suoi paesaggi cangianti e mutevoli nelle diverse situazioni stagionali e ambientali.
Pur emergendo un certo bizzarro geometrismo di labirinto anagrammatico, di fronte a questa adunata di sagome di legno prevale la sensazione che qualche poeta, col sorrisino sotto i baffi, abile tanto nella scrittura quanto nel disegno, nel gesto plastico e nel colore, ci stia raccontando delle stupefacenti “favole di legno” che oltretutto suggeriscono suggestive soluzioni di moderno e di singolare decorativismo arredativo.
Pubblicato su Libertà, 2 giugno 1995
"Il Popolo di Legno", di Alessandra Bassi
La Galleria Rosso Tiziano Arte di Piacenza presenta una mostra dello scultore Rino Crivelli dal titolo “Il popolo di legno”, che sarà aperta fino al 13 giugno. Quella di Rino Crivelli è una strana biografia d’artista: nato a Milano nel 1924, si è laureato in ingegneria ed ha lavorato nell’industria fino al 1964; nel 1945 aveva però iniziato a disegnare a dipingere, e dal ’64 si dedica solo all’arte e alla scrittura. A metà degli anni ’80 inizia ad abbandona la pittura “intesa – scrive Crivelli stesso – come illegittima finestra introdotta clandestinamente nella parete”. Le sue ultime sculture sono però in gran parte costruite dalla pittura, e non solo perché sono colorate; secondo la descrizione dello stesso artista, il popolo di legno è fatto di “sagome ad altezza umana ritagliate da tavole, incernierate e dipinte, da ambedue le parti”. La cerniera permette alle opere, del tutto piatte, di stare in piedi e di manifestarsi in tutte le loro interessanti “contraddizioni”. La produzione artistica di questi ultimi dieci anni è costituita poi da fogli disegnati, o meglio, “scritti” in una specie di misterioso alfabeto fatto ancora una volta di sagome e di forme arrotondate e sinuose, dei quali lo stesso Crivelli dice di sospettare che “la scrittura così raccolta, per altro da decifrare, altro non sia che il diario del popolo di legno”. Nel catalogo delle mostre del 1995 è riportato uno scritto in cui Roberto Sanesi si richiama alla favole e all’immaginario collettivo per interpretare le opere di Crivelli, nelle quali “si addensa una carica di suggestione che sembra dipendere dall’assunzione, da parte di Crivelli, di categorie pre-letterarie/visuali che agiscono come una sorte di mitologia oscillante, allusiva e soprattutto ‘indefinita’, fino a un collettivo che non è a priori ma finge di esserlo e, fingendo, si offre per certo – ipotesi la cui risoluzione è rimandata, verso altre ipotesi”. L’altro testo riportato in catalogo è invece recente: qui Giancarlo Majorino sottolinea la compresenza di aspetti apparentemente inconciliabili, contrastanti, e gli sembra così che il carattere più decisivo delle figure del popolo di legno stia “in una contraddizione fruttuosa, capace di costituirsi tanto in unicità, quanto in comunanza. È come se queste formidabili incarnazioni di legno (…) articolassero un orizzonte di metafore e metonimie, familiari e distanti al contempo. Nell’ordine delle familiarità, convocando fattezze, o almeno identikit, di evidenza antropomorfica; nell’ordine della distanziazione, esigendo sforzi di supplenza logica, mentale”.
Pubblicato sul Corriere Padano, 2 giugno 1995
"Le scaglie luminose di Rino Crivelli", di Viviana Saino
“Strutture di una passione” è il titolo che Crivelli ha dato alla personale 4, in effetti, più che quadri il visitatore incontra delle strutture modellate con semplice armonia di forme che ad incastro, in un gioco di luci e di colori, alternano il fluire delle sensazioni, delle emozioni, la vita, insomma, con tutto quello quanto concerne le passioni. Per comprendere i lavori occorre guardarli, rimirarli, porsi di fronte all’opera, lasciarsi andare e permettere alle sensazioni più arcane di impadronirsi del nostro cuore e nella nostra mente.
…
Il linguaggio dell’opera di Crivelli si potrebbe definire “ermetico” così come lui stesso esprime attraverso le parole che trascendono il significato primo per penetrare in mondi più recenti. “Mi ritirai nello specchio per osservarmi… neppure un istante provai il desiderio di sfiorare colle dita le scaglie luminose. Anche le mani erano sguardo”. E il nostro sguardo si posa sulle sue “strutture” modellate e dipinte per “sentire” le passioni che nascono da ciò che gli occhi stanno a guardare.
Pubblicato su Il Corriere, 16 maggio 1990, in occasione della mostra tenuta alla Galleria AZ, Milano
"Rino Crivelli. Il popolo di legno e altre visioni", di Marc Tibaldi
Il ritorno di un artista e scrittore originale ed eccentrico
Esiste una tribù che gli antropologi non hanno ancora individuato e studiato. Meglio così perché significa che i suoi appartenenti sono liberi di nascondersi anche dai turisti e dai loro smartphone. Il creatore di questa tribù è Rino Crivelli, artista e scrittore eccentrico e originalissimo, che fece della fabulazione visiva e narrativa la sua arma creativa migliore. Si tratta del Popolo di legno, costituito da individui che silenziosamente dialogano tra loro e intrattengono chi li osserva con il gioco del trasformismo, rendendosi ora riconoscibili o irriconoscibili. Un aiuto ci viene dai loro nomi Till, Milagro, Benina, Mateto, Calicardio, Armida, Anagramma, Diotima, Tupamarga, Kora, Garumma, Tremottino, nomi da fiaba, che qualche volta sembrano concedere una probabile indicazione, ma che come tutte le fiabe contengono una struttura nascosta, così che “ci troveremo di fronte a un’altra storia” – come suggerì il critico Roberto Sanesi. L’atmosfera che questo popolo crea è carica di familiarità, di ironia, ricordandoci di essere individui in una collettività fatta di irriducibili persone complesse. Questi esseri bifaccia sono solidamente verticali, ricavati da tavole di legno, sagomate, incernierate e dipinte da ambo le parti. Per una decina di anni Crivelli lavorò al suo Popolo di legno, che si moltiplicò sempre più, quasi in un riprodursi naturale; “esseri somiglianti ma tutti diversi, una sorta di individui uniti o ancor meglio unibili”, come li ha definiti il poeta e amico Giancarlo Majorino, uno degli intellettuali con cui lo scambio culturale di Crivelli è stato più intenso. Per arrivare alla creazione di questo popolo, l’artista diradò i rapporti con la pittura su quadro, intesa come “illegittima finestra introdotta clandestinamente nella parete. La cangiante pelle pretenderebbe d’essere altro e di più, reclamando la sua avventura nello spazio”. Importante: attorno al Popolo di legno “s’infittisce per sussurri e cenni, rarissime grida, un flusso disegnativo implacabile, accolto da migliaia di fogli di uguale dimensione”. Crivelli – con il suo humor visionario – nutriva il sospetto che questi disegni (“una delle punte più alte della sua ricerca espressiva”, sostiene la storica dell’arte Elena Pontiggia) siano una lingua da decifrare che nasconde il diario del Popolo di legno.
Un suo amico, lo scultore Federico De Leonardis, ricorda un aneddoto che Crivelli gli raccontò con grande divertimento. Lavorava – Crivelli – come ingegnere in una fabbrica fuori Milano, quotidianamente per raggiungere il posto di lavoro prendeva il treno. Una mattina, dopo essere salito, appoggiò la cartella con documenti di lavoro sopra la rastrelliera portaborse e all’arrivo scese dal treno dimenticandola e non ricordandosene più. La mattina successiva, allo stesso orario, riprese il treno e si sedette nello stesso posto del giorno precedente; quando fu il momento di scendere allungò automaticamente il braccio e prese la cartella che lì era rimasta. Forse fu la riflessione su quell’evento metafisico, che al tempo stesso ripeteva e spezzava la monotonia, forse fu la paura dell’alienazione del lavoro e il timore di trasformarsi in uno scarafaggio – come Gregor Samsa, il commesso viaggiatore protagonista della Metamorfosi di Kafka – che lo portò a decidere di lasciare la professione di ingegnere e dedicarsi completamente all’arte, sua vera passione. Lo sappiamo, la creatività e l’immaginazione hanno da sempre un debole per la ribellione e l’anticonformismo. Bisogna aggiungere inoltre che Crivelli – arruolato nell’esercito nel 1943 – diventò anarchico e pacifista dopo la dura esperienza della guerra e del campo di concentramento. La sua fu una ribellione creativa, giocosa, affabulatoria, ironica e autoironica. Si divertiva a far ridere la gente con calembour e giochi di parole, spesso in dialetto milanese, con grande arguzia e cognizione linguistica da amante della verve vernacolare del popolo e della raffinata tradizione meneghina che collega Carlo Porta a Delio Tessa. La sincerità, l’assoluta umanità, il piacere del vivere, l’erotismo, erano altre sue peculiarità. “Era critico, caustico, ironico… anarchico, ma ci sapeva fare con l’invenzione!”, sottolinea De Leonardis. Crivelli, milanese, aveva studiato al liceo classico Giuseppe Parini, si laureò in ingegneria, ma la passione per le arti plastiche – come si diceva allora – e per la scrittura era forte fin dalla gioventù. Recitava a memoria le poesie di Montale, era un appassionato dell’Ariosto e dell’humor noir dei surrealisti, studiava i testi classici del pensiero marxista e libertario, nonché i filosofi dell’antica Grecia. Ma nella sua sterminata libreria trovano posto titoli e autori diversissimi, da Alberto Savinio a Erich Musham, da Jorge Luis Borges a Manuel Cortàzar.
È giunto il momento di non lasciar correre da solo Rino Crivelli. Sono necessari studi, cataloghi e mostre per far conoscere appieno la sua esaltante opera creativa. Come ha scritto la storica dell’arte Elena Pontiggia, sua più attenta conoscitrice, è necessaria una “grande retrospettiva che Milano dovrebbe dedicare a questo artista, che a sua volta – avendo vissuto sempre in questa città – ha dedicato a Milano la sua ricerca”.
È giunto il momento di viaggiare nel paese del Popolo di legno, di impararne la lingua e cercare dove le sue isoglosse confinano con la nostra sensibilità, di conoscerne le sue individualità, di studiarne i costumi, senza temere di aver qualcosa da imparare da questa tribù immaginaria, visionaria e reale. L’arte – visiva e letteraria – di Rino Crivelli ci aspetta spostando i nostri confini temporali.
Altri articoli su Rino Crivelli:
Roberto Sanesi (testo riportato nel catalogo delle mostre del 1995, scritto nel 1976);
Giancarlo Majorino, testo del 1995 per il catalogo della mostra alla Galleria Rosso Tiziano Arte, Piacenza
Annamaria Raini, Le Arti, maggio 1965
Mario Radice, La provincia, Como, 23-10-1967
Barioli, Il Gazzettino, Vicenza, 13-1-1968
Augusto Minucci, La Stampa, Torino, 11—6-1969
Franco Passoni, Avanti, Milano, 25-1-1970
Giorgio Mascherpa, Avvenire, Milano, 28-1-1970
Giorgio Seveso, L’Unità, Milano, 28-1-1970
Nivo Suri, d’Ars Agency, aprile 1970
Eliana Bortolon, Epoca, 201-10-1972